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Segr_17-05-10

Dalla moratoria all’abolizione della pena capitale:

Non c’è giustizia senza vita [DOWNLOAD PDF ITA - ESP]

V Congresso internazionale dei Ministri della Giustizia

Palazzo Altieri, Piazza del Gesù, n. 49

 Roma, 17 maggio 2010

 

 

+ Mario Toso

Segretario del Pontificio Consiglio «Iustitia et Pax»

 

_________________________________________________________

Eccellenze,

Reverendi Monsignori,

Distinti Signore e Signori,

 

 

Sono veramente onorato di essere con Voi, oggi, per indirizzarvi un saluto e per rivolgervi un augurio in occasione del V Congresso Internazionale dei Ministri della Giustizia. Il Vostro «ministero», già sul piano etimologico rappresenta una speciale «vocazione» e un particolare «servizio» alla giustizia, quella virtù assai nobile e preziosa che proietta immediatamente verso l’affermazione di un ordine morale e sociale giusto, orientato alla realizzazione del bene comune.    

     Come ha sottolineato il Concilio Vaticano II, la dottrina sociale della Chiesa non pretende «minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati»[1], né tanto meno dettare un’«agenda politica». Essa è portatrice di un «insieme di principi di riflessione, di criteri di giudizio e di direttrici di azione»[2] che hanno nella dignità trascendente della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio (Gn 1, 27) la misura e il fine ultimo di «compimento». Orientamenti, quindi, che come tali possono essere utili alla riflessione e al dialogo, anche sul servizio dell’Autorità pubblica che Voi rappresentate, specie con riferimento al tema che è al centro di questo incontro.

     La pena di morte è un argomento delicato e complesso che non può essere recluso nella «torre d’avorio» delle discussioni teoretiche o dei palazzi decisionali. È una questione che coinvolge e interpella l’intera società umana, direi la nostra umanità, la civiltà che siamo, che dovremmo essere, o che pensiamo di essere.

 

     Gli argomenti tradizionali a favore della pena capitale sono spesso di natura pragmatica. Sul piano morale si sostiene che essa godrebbe della stessa legittimità della difesa della società. Sul piano sociologico, si afferma che la pena capitale sarebbe una misura efficace ai fini di quella che la criminologia definisce la generalprevenzione, cioè la dissuasione dei consociati nel commettere i reati più gravi puniti con la pena capitale. Secondo queste prospettive, la pena di morte riproporrebbe il modello arcaico del sacrificio umano con la funzione di «placare le violenze intestine, d’impedire lo scoppio dei conflitti»[3], così da ristabilire l’ordine infranto e la giustizia.

     Non ho la competenza né la pretesa di argomentare i dati dell’esperienza che contraddicono l’efficacia della pena di morte come misura per la prevenzione e per la reazione ai reati più gravi. Anche se gli stessi dati sembrano abbastanza eloquenti nell’orientare la risposta in senso negativo. Vorrei piuttosto fermarmi sulle implicazioni della pena di morte rispetto al valore della dignità umana, al quale ho fatto inizialmente cenno.

     C’è un racconto nella Bibbia che rappresenta un archetipo etico, un vero e proprio patrimonio culturale comune dell’umanità. Mi riferisco alla storia di Caino e Abele, legati da un vincolo di sangue, ma prima ancora dal vincolo spirituale che unisce i figli di Dio. Sappiamo che Caino, accecato dall’invidia, uccide Abele. Dio, che veglia sull’umanità, si rivolge allora a Caino con la domanda: «Ubi est Abel frater tuum?» («Dov’è Abele, tuo fratello?»; Gn 4, 9). Caino cerca di schermirsi ma non riesce a mascherare la propria colpa: «Non lo so. Sono forse io il guardiano di mio fratello?» (ibid.). Riprende, allora, Dio:

«“Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto, lontano dal suolo che ha aperto la bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra”. Disse Caino al Signore: “Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono. Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi ucciderà”» (Gn 4, 10-14).

     Ma a questo punto, il racconto si sviluppa in maniera inattesa. Infatti, Dio continua, e afferma:

«“Ebbene, chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!”. Il Signore impose a Caino un segno, perché nessuno, incontrandolo, lo colpisse» (Gn 4, 15).

     Il racconto della Bibbia potrebbe per certi versi scandalizzare. La sorte di Caino, l’ingiusto, non è infatti quella di Abele, il giusto. Non è nemmeno quella attesa dallo stesso Caino, il quale ammette la propria colpa, e la reputa troppo grande per ottenere perdono. Superando la prima impressione occorre cogliere il significato profondo del racconto della Genesi. Esso infatti, con immagini sicuramente forti, indica la via che dalla vendetta conduce alla giustizia. Una maturazione, questa, che in Gesù, si farà netta: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra» (Mt 5, 38-40).

     La giustizia, se fondata su una fraternità non solo carnale, ma spirituale e rivelata degli esseri umani, assume allora una nuova essenza e un nuovo significato. Essa si apre alla dimensione della comprensione, della redenzione e del perdono, in una parola alla carità. A ben vedere, ciò non contrasta né conduce lontano dalla giustizia, per così dire, civile e «laica», affidata al Vostro Ministero. In passato del resto, in molti Paesi, lo stesso Ministero della Giustizia portava la duplice denominazione di «Grazia e Giustizia». Cosa ci dice ciò?

     La giustizia e la carità non si escludono a vicenda. Al contrario esse sono inseparabili, complementari ed interdipendenti. Come ha sottolineato Paolo VI, la giustizia è «la misura minima»[4] della carità. In altre parole, senza la carità, che non significa facile indulgenza, bensì coerenza alla dignità di tutti gli esseri umani - anche di chi ripete l’esperienza di «Caino» nella società -, la stessa giustizia rischia di trasformarsi in ingiustizia, come ammonisce la massima di saggezza giuridica: summum ius, summa iniuria!

     Con la pena di morte, la società si ritrova, simbolicamente, dinanzi ad un interrogativo che non lascia scampo: «dov’è nostro fratello?». Poiché anche il criminale, come Caino, ha un sigillo, la dignità umana, e nessuno può alzare la mano contro di lui. Da questo punto di vista si è sollecitati ad entrare in un altro ordine di considerazioni e di constatazioni. Il gesto con il quale si crede di arginare l’ingiustizia, infatti, finisce paradossalmente con il rendere ancora più ripida la discesa verso il regno dell’ingiustizia. La certezza che la pena di morte possa essere un rimedio legittimo sembra vacillare. La «domanda delle domande» è allora: come mantenere sano il corpo sociale, e come curarlo nel caso si manifesti il male del crimine?

     Se volessimo rispondere con coerenza, dovremmo anzitutto ammettere che il punto di riferimento non può che essere la dignità della persona umana, valore preminente, componente e «atomo sociale» fondamentale dello Stato. Tanto è esigente il rispetto della dignità umana che la giustizia non può essere ridotta ad una proiezione pubblica della vendetta privata. Uccidere un cittadino, anche se responsabile di un crimine, non significa ancora avere sostituito la vendetta con la giustizia. È continuare a coltivare l’illusione di interessi superiori al valore della persona umana. È perseverare nella cultura della morte. Il diritto romano, già nel III secolo d.C., pur non avendo ancora maturato quella che oggi noi potremmo chiamare la «cultura dei diritti dell’uomo», tutelava la vita umana come valore preminente sin dal suo concepimento, e non solo nell’interesse privato, ma in quello della res publica (Ulpiano, D. 37, 9, 1).   

     Coltivare la civiltà della vita, orientare le politiche pubbliche allo sviluppo integrale, ossia ad uno sviluppo non solo materiale, ma culturale e morale di ogni persona, è la strada più efficace per la prevenzione del crimine. Il crimine, come qualsiasi proposito malvagio, va prevenuto ed estirpato prima di tutto nei cuori e nelle menti delle persone.

     Il male del crimine - come ciò che san Paolo chiama il «mistero dell’iniquità» - resta tuttavia una minaccia per la società. Proviamo, allora, a chiederci: lo Stato non ha alternative meno cruente rispetto alla pena di morte? La morte del criminale soddisfa pienamente la fame e la sete di giustizia delle vittime? Rispondere in maniera affermativa risulta, onestamente, poco agevole.

     Gli Stati oggi dispongono di mezzi efficaci per sanzionare i criminali e renderli inoffensivi e, al tempo stesso, non smarrire, dove possibile, la prospettiva del loro cambiamento e del reinserimento sociale. La vendetta, inoltre, anche se delegata allo Stato, non soddisfa mai, alla radice, la fame e la sete di giustizia. Anzi, innesca una pericolosa spirale di violenza nella società, poiché la violenza chiama altra violenza.

     Bisogna, poi, considerare la fallibilità della giustizia umana, che rende la pena di morte ancora più spaventosa. Come assumere il rischio di uccidere una persona innocente? Come risarcire gli innocenti per gli anni di ingiusta prigionia in attesa di essere giustiziati? Va, infine, riconosciuto che la pena di morte può trasformarsi in una tragica «realtà» solo per i più poveri, non in grado di affrontare le spese del giusto processo, o che la pena di morte venga strumentalizzata da forme più o meno sofisticate di totalitarismo moderno per eliminare persone «non gradite» per ragioni di natura sociale, razziale, politica, religiosa.

     Uccidere chi ha ucciso per affermare che uccidere è sbagliato è una contraddizione prima di tutto sul piano etico. Ciò risulta sempre più chiaro nella coscienza pubblica internazionale. La Chiesa registra, infatti, con speranza «la sempre più diffusa avversione dell’opinione pubblica alla pena di morte anche solo come strumento di “legittima difesa” sociale, in considerazione delle possibilità di cui dispone una moderna società di reprimere efficacemente il crimine in modi che, mentre rendono inoffensivo colui che l’ha commesso, non gli tolgono definitivamente la possibilità di redimersi»[5].

     La giustizia non può essere alimentata con sentimenti di paura e di vendetta. La pena è giusta solo quando sa essere «farmaceutica» per chi si è macchiato di un crimine, dalla cui redenzione dipende anche quella della società nella quale il crimine ha avuto origine. La capacità di rispettare il prossimo - sia esso un amico o un nemico - è il cuore del messaggio di amore e di non violenza del Cristianesimo, nonché delle grandi civiltà e religioni del mondo. Accogliendo con coraggio questo messaggio, la società umana potrà abbandonare la cultura della paura e della morte e acquisire pienamente una civiltà della speranza e della vita.

     La Chiesa guarda perciò con grande fiducia alle Vostre Eccellenze, chiamate ad essere, nel senso più alto del termine, dei «ministri e servitori» della giustizia, e prega e opera affinché sia sempre ascoltata la voce di coloro «che hanno fame e sete della giustizia» (Mt 5, 6), ed operano con la saggezza e il discernimento per riconoscere il sigillo impresso da Dio nel profondo di ogni essere umano, anche del fratello ingiusto.  

 

 

 

[1] Cost. past. Gaudium et spes, 36.

 

 

[2] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 41.

 

 

[3] R. Girard, La violenza e il sacro, Milano, 2005, p. 30.

 

 

[4] Discorso per la giornata dello sviluppo, 23 agosto 1968.

 

 

[5] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano, 2004, 405.